La sindrome dei selfie: l’epidemia del narcisismo digitale

Usare le immagini per esistere: questo è il motto della selfie generation, un popolo di internauti pronti a invadere i social network.

 

Il termine selfie è diventato oramai parte del linguaggio comune e non è altro che una fotografia di se stessi, scattata mediante smartphone e condivisa sui social network.

Ma cosa ha prodotto questa mania di fotografarsi in ogni istante e in ogni dove? Gli esperti parlano di una vera e propria dipendenza: la sindrome dei selfie.

La sindrome dei selfie

La sindrome dei selfie si caratterizza come un’ossessione marcata per gli autoscatti, riprodotti più volte nel corso della giornata e pubblicati in maniera compulsiva sui vari social network.

Nel tempo si è anche definita una sorta di guida per il selfie perfetto: valutare le giuste distanze e la corretta angolazione, di solito dall’alto; assumere un’espressione naturale facendo finta che ci sia qualcuno a scattare la foto o, in altri casi, utilizzare direttamente uno specchio (spesso all’interno di un bagno, ahimè).

Generalmente le foto vengono ritoccate nell’immediato attraverso apposite applicazioni degli smartphone. Per chi invece vuole esagerare sono arrivati sul mercato anche i bastoni estensibili, con i quali scattare selfie a regola d’arte includendo anche il panorama circostante.

La sindrome dei selfie è talmente rilevante che due studiosi gli hanno perfino dedicato un portale, Selfiecity.net.

Sviluppato da Lev Manovich e Daniel Goddemeyer, sul sito vengono studiate le foto lanciate su Instagram da tutto il mondo.

Attraverso un’analisi accurata del materiale, è stato creato un quadro sulle caratteristiche della selfie generation: l’età media si aggira intorno ai 23/24 anni. Sotto i 40 anni il primato delle presenze spetta alle donne, mentre dopo i 40 si inverte la tendenza.

Il narcisismo digitale

In base agli studi condotti dagli psicologi Jean Twenge e Keith Campbell, siamo nel bel mezzo di una epidemia di narcisismo digitale.

I vari social network facilitano il continuo contatto con un pubblico onnipresente, in cui le relazioni superficiali mettono al riparo da un’esposizione sincera della propria persona.

Il numero di like ricevuti su Facebook, i follower su Twitter, tutto amplifica e gonfia il proprio Sè. Twenge aggiunge che tutte le generazioni nate dopo il 1970 sono cresciute con l’idea di dover essere speciali a tutti i costi.

Genitori e insegnanti hanno incentivato l’autostima di bambini e ragazzi, lasciando loro il mito della grandiosità, una grandiosità che ben si sposa con il fenomeno dei social media.

In questo narcisismo digitale non c’è spazio per l’altro, non c’è empatia nè altruismo. L’altro diventa importante solo in quanto spettatore delle nostre ostentazioni, spesso del tutto finte e costruite al punto da provocare quella che gli esperti definiscono amnesia digitale.

Ma cosa rimane di noi, una volta spenti i riflettori?

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